Nell’introdurre
un’ipotetica vicenda storica dell’arredamento è necessario darne, o cercare di
dare, una definizione utile ad indicare un’idea di arredamento come concetto
funzionale e fenomenologico degli elementi d’arredo, dei mobili, degli oggetti
e del loro sviluppo.
A
tal fine mi rifaccio agli studi di Renato De Fusco (Napoli 1929) che, per
costruire questo concetto funzionale, si orienta sul rapporto che la pratica
dell’arredamento presenta con l’architettura.
“Altrove
ho inteso un’opera architettonica, un edificio, come un sistema di unità
spaziali agibili, ciascuna delle quali composta da un invaso (una stanza, una
sala, un ambiente) e da un involucro, ovvero i muri e gli altri elementi che
conformano e delimitano quell’invaso. Il luogo dell’arredamento è appunto
l’invaso, lo spazio in cui si vive, dove si sistemano i mobili e gli altri
elementi di arredo”. (R.
De Fusco. Storia dell’arredamento dal ‘400 al ‘900. 2004, Ed. Franco Angeli)
Tuttavia,
essendo l’involucro e l’invaso elementi indissolubili, aggiungeremo che l’area
dell’arredamento è quello dell’invaso ivi comprese le facce interne
dell’involucro come i soffitti, le pareti, i pavimenti e una serie di elementi
che il De Fosco definisce la “fodera” dell’invaso. Per tanto la differenza tra
architettura ed arredamento si può identificare nel fatto che l’architettura
conforma l’intero sistema delle unità spaziali di un edificio fino a
comprenderne la volumetria esterna, l’arredamento si occupa delle singole unità
spaziali e la sua pratica consiste nell’articolare lo spazio agibile
dell’invaso in relazione alla sua destinazione d’uso.
I Greci
È
lecito ritenere che, i principali tipi di mobili ereditati dall’Egitto e dalla
Mesopotamia, fossero largamente usati in Grecia.
Tutto
ciò che sappiamo sull’arredamento greco è giunto a noi dai ritrovamenti
archeologici. Scene dipinte su vasellame, scolpite sui bassorilievi ed anche
narrate dalle fonti letterarie del tempo. Ritroviamo, dunque, non tanto la
conoscenza di ambienti quanto quella dei mobili e degli oggetti singoli che
rientrano nella rappresentazione di un episodio, quello appunto riportato dal
ritrovamento archeologico.
In
Grecia, i mobili più significativi sono i sedili classificabili in tre tipi: diphros, thronos e klismos.
Il
primo era uno sgabello con gambe tornite e privo di schienale e braccioli. Vi
era una variante pieghevole chiamata diphros
okladias con gambe incrociate e raccordate due a due e con la seduta in
pelle.
All’opposto di
questo primo ed essenziale modello è il thronos,
definito da Gisela Richter come “un’imponente
cattedra usata dagli dèi, dai defunti eroicizzati, dai principi e da altri
personaggi importanti”. Poteva disporre
di uno schienale di varie altezze e, talvolta, di braccioli. La seduta, di
pelle, veniva resa più confortevole dall’aggiunta di cuscini e tessuti. Vari
motivi ornamentali – più o meno ricchi a seconda dell’importanza del lignaggio
del destinatario – ne caratterizzavano la fattura: tra questi le gambe e i
braccioli lavorati e intagliati, ad esempio, rispettivamente come zampe e teste
di animali. (Gisela M. A. Richter, L’arte greca, Torino 1969, p.270).
Tra i due esempi
precedenti si pone il klismos. Questo
sedile era senza dubbio il più originale fra quelli greci e possedeva una
importante valenza estetica da un punto di vista morfologico. Leggera, con quattro gambe a sciabola.
Le gambe posteriori proseguivano a formare la spalliera, quest’ultima,
avvolgente all’altezza del dorso quasi ispirato, per le sue forme morbide,
eleganti e curvilinee, ad un corpo femminile frutto, non già di un semplice
carpentiere ma forgiato dalla sapiente mano di uno scultore. A conferma
dell’origine scultorea dell’invenzione del klismos
sono gli scavi che, in vari teatri, hanno riportato alla luce diversi
esemplari marmorei di klismoi come
quelli scolpiti nel teatro di Dionisio ad Atene. In questo ritrovamento si nota
che i primi posti della cavea sono contrassegnati da thronoi e da klismoi ricavati
nelle prime gradinate. I primi hanno gambe a zampa di leone e braccioli e
figurano come un blocco di marmo a forma di sedile che si sovrappone ai piani
del gradone, i klismoi, sono
modellati proprio su tali piani, quello corrispondente alle gambe è concavo ad
andamento orizzontale così che i due ideali sostegni del sedile appaiono
incurvati in avanti come nella sedia vera e propria. Il piano corrispondente al
sedile è limitato dalle stesse fasce delle gambe che proseguono sul terzo piano,
quello della spalliera. Questo è concavo nel senso verticale per il comodo
appoggio della schiena. Il tutto dona un elegante ritmo scultoreo alla
struttura lineare nel suo formato ligneo.
Dopo i sedili,
per ordine di importanza tra i mobili, troviamo la kline: il letto. Costituito da un telaio in legno cui erano
collegate corde intrecciate che formavano il piano d’appoggio. Le quattro gambe
erano larghe quanto la fascia del telaio o la sponda del letto. Veniva decorato
sul suo profilo laterale con cuscini e biancheria, il profilo era costituito
dalla fascia di sponda e dalle due gambe, quella a piedi fuoriusciva dalla
sponda, mentre l’altra era sensibilmente più alta cosi da far assumere al
materasso, disteso e ripiegato al di là dei lati brevi, un andamento concavo
con un rigonfiamento più basso per i piedi e uno più alto per il capo. Il Kline non serviva solo per dormire ma
veniva usato anche per mangiare durante i banchetti. Si scopre, da alcuni
ritrovamenti, scene che ritraggono più klinai
affiancate dove, le figure che occupavano questi letti si servivano da
tavolini bassi a doppio ripiano, i quali, venivano riposti sotto la struttura
(fig. 3: in alto un particolare di un cratere con scena di banchetto, da Cuma
IV secolo a.C. presente nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, in basso
una urnetta Etrusca con scena di banchetto; da Chiusi, fine sec. VI a.C. e
conservata nel Museo Archeologico di Firenze).
Si pensa che, al di sotto del tavolo,
venisse riposto un altro mobile quasi a creare un effetto a scatola cinese. Non
mancava, presso gli antichi greci, un mobile presente in ogni epoca, ovvero, la
cassa per la biancheria chiamata Kibotos presente
e descritta in numerose opere letterarie. Le “arche” di epoca classica
assunsero la forma di un parallelepipedo con coperchio piatto che poteva
presentare decorazioni e piedi a zampa di leone.
Vale la pena considerare, in fine, che
questi oggetti, una volta raggiunta una conformazione ottimale nella loro
funzionalità, nel corso del tempo, di poco o nulla sono stati rielaborati quasi
ad ammettere l’esistenza di oggetti sui quali il tempo non produce grosse
variabili. Un amo da pesca, ad esempio, oggi ha la stessa forma di qualche
millennio fa.
Marco Boccia
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