Una
delle mete più significative di una gita ad Ischia è il Castello Aragonese in località Ischia Ponte. Lasciandosi il porto
alle spalle si arriva nel borgo antico, piccolo, pieno
di negozietti con le case dei notabili a destra e, sulla sinistra, le case
della gente comune, più basse per non impedire la vista del mare ai primi. Si
arriva al ponte che congiunge l’isola maggiore con quella che ospita il
castello.
La
prima fortezza, costruita su quella che un tempo era un isolotto, risale al 474
a.C. ad opera del greco siracusano Gerone I venuto in soccorso dei Cumani nella
guerra contro i Tirreni. La battaglia si svolse nello specchio d’acqua
antistante l’odierno comune di Lacco Ameno e, in seguito alla vitto riportata,
Gerone ottenne l’isola ed il castello.
Nel 315 a.C. i Romani
fondarono la città di Aenaria ed il Castello fu adibito a fortino difensivo e
vi costruirono alcune abitazioni. Ciò che dette, tuttavia, una spinta allo
sviluppo della struttura fu l’eruzione del monte Epomeo avvenuta nel 1301. Gli
abitanti vi si trasferirono e iniziarono a costruire un vero e proprio
insediamento urbano che raggiunse le dimensioni di una piccola città. Nel 1441
fu Alfonso I d’Aragona, detto il Magnanimo, che ricostruì il vecchio maschio e
unì l’isolotto all’isola maggiore con un ponte artificiale lungo 250 metri
inizialmente costruito in legno e pietra e più volte rimaneggiato, fino
all’ultima ristrutturazione avvenuta nel 1800. Vi edificò poderose mura e
fortificazioni dentro le quali il popolo ischitano trovò rifugio dai frequenti
attacchi della pirateria. Il periodo di massimo splendore si ebbe ne sec. XVI
quando la rocca arrivò ad ospitare 1892 famiglie oltre che l’Abbazia dei
Basiliani, 7 parrocchie, il Vescovo con il Capitolo ed il Seminario, il
Principe e la sua guarnigione ed il convento delle Clarisse, un Ordine di
Clausura. Qui abbiamo scoperto, nel cimitero delle monache, qualcosa di
incredibile e raccapricciante allo stesso tempo.
Situato al disotto della chiesa e, costituito da
una serie di ambienti, vi sono gli scolatoi. Seggioloni in muratura sui quali
venivano assisi i corpi senza vita delle monache. La carne si decomponeva
lentamente, gli umori venivano raccolti in appositi vasi ed infine, gli scheletri
essiccati, venivano ammucchiati nell’ossario.
Tale
macabra pratica trovava fondamento nella necessità di evidenziare al massimo
l’inutilità del corpo in quanto semplice contenitore dell’anima. Il rifiuto di
una sepoltura individuale sottolineava, ancora una volta, questo convincimento.
Ogni giorno le monache si recavano in preghiera a meditare sulla morte e,
trascorrendo diverse ore in un ambiente così malsano. Contraevano spesso
gravissime malattie che in molti casi conducevano alla morte. Vale la pena
ricordare che la pratica della scolatura, per quanto macabra, era diffusa in
tutto il Sud Italia. L’antropologia la definisce un rito di passaggio da uno
stato ad un altro come lo è la nascita, le iniziazioni, i matrimoni e la morte,
quest’ultima, come liberazione del corpo, impedimento fisico alla catarsi dello
spirito. Questo le monache di clausura, anche oggi, lo sanno bene. Va aggiunto che
questo tipo di sepoltura non è appannaggio esclusivo del Sud Italia, ma si
ritrova diffusa (con qualche ovvia variazione) in diverse zone della terra: in
gran parte del Sud Est asiatico, nell’antico Messico (come dimostrano recenti
ritrovamenti)
e soprattutto in Oceania, dove è praticata tutt’oggi.
In
quello che può essere un nostro personalissimo percorso alla scoperta della
storia del mobilio e delle loro diverse funzioni, si rimane stupiti dalla
differente funzionalità di questi oggetti e di come tutto questo la storia l’ha
riportato a noi con una potenza tale che, anche una semplice visita turistica,
può trasformarsi in un momento di riflessione su argomenti che prescindono una
semplice e a volte, per chi scrive, banale vacanza.
Altre,
in fine, sono le cose che si scoprono visitando il castello Aragonese, una gita
che consigliamo a tutti coloro che si recano in questa splendida perla del
Mediterraneo che andrebbe vissuta come Truman Capote riporta nei suoi appunti
di viaggio da prendere con pigra calma perché non è un posto per la fretta e la
furia delle ore.
Marco Boccia
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