La
città è un delirio di lamiere e cemento che si stratificano in una notte
postmoderna che toglie ogni respiro e dove la luce non è più atmosferica.
Questo il primo impatto con le opere di Alba
Amoruso esposte dal 30 Settembre al 10 Ottobre nel palazzo della Provincia
di Bari.
Il
tratto sembra ossessivo quasi compulsivo, sferzate di tempera sulle tele
sottolineano la mancanza d’aria in un vortice di cemento, vetro, acciaio e
lamiere che non lascia scampo ai sogni. La ricerca della forma, i contrasti tra
i colori in una abbondanza fra toni forti e deboli creano diversi livelli e
piani sovrapposti che tratteggiano una prospettiva che spinge l’osservatore
all’interno dell’opera stessa. La Amoruso ci fa incontrare le sue megalopoli
create dagli uomini e dove proprio gli uomini mancano dopo aver disegnato un
futuro che ha i tratti del presente e dove, questo presente viene subito e
percepito come ostile. Il panorama industriale di queste megalopoli è il frutto
di una frenesia fuori da ogni controllo e che ha già divorato quasi tutti i
fiori. Gli occhi della
notte sono quelli di un cigno, trovatosi per caso, quasi impigliato in una
vegetazione asfissiata, quasi incapace di riprendere il suo volo ma che sembra
usare le sue forze per dispensare quell’energia utile a tener testa alla
alienazione che sovrappone container che sono case ammassate l’una sull’altra e
pullulanti di piccole vite lontane, quasi nascoste in una solitudine che è dei
molti.
“L’artista
pugliese fondamentalmente canta la fine di un modello di civiltà che si basa
sul consumo di sé e sul sacrificio dell’umano, sulla massificazione e sul
sistematico, rituale omicidio dell’ individualità a favore della mostruosa
quinta urbana, che pur seduce visivamente con le sue immense membra sincrone,
quanto il sublime salto di una cascata, il fulmine e l’impeto del cielo
riempivano i taccuini dei viaggiatori romantici, colti da un temporale al passo
o costretti a camminare su mulattiere infide, contro rocce oscure. Si
sviluppava, anche in quella prospettiva, l’attrazione al cospetto dell’abnorme,
del mostruoso naturale, attraverso la descrizione di un Golem che , gigantesco
come il mostro guerresco attribuito al Goya, potesse conculcare l’esilità delle
esistenze umane” (Maurizio Bernardelli Curuz-Brescia). Una mostra,
quella dell’Amoruso che va vista con gli occhi di chi non ha paura di un
presente che sembra la negazione degli antichi sogni dei futuristi che vedevano
nelle macchine e nelle industrie la salvezza evolutiva dell’uomo. Un lavoro di
grande forza visionaria che rimane stampato nella mente e che potrebbe dare il
via ad un nuovo rinascimento dove, con l’uomo, rinasca anche un nuovo concetto
di città e di luogo che ci insegni che nel cemento non vi è alcuna poesia anche
se, Alba Amoruso, riesce a scrutarne i
tratti e ad esprimerli.
Marco Boccia
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